domenica 9 gennaio 2011

PRESA

A me è servita solo una mano, poi sono partita. Qualcuno finalmente mi ha liberato da quel malefico tappo che mi creava un cerchio terribile alla testa.. mi soffocava, mi stringeva, mi toglieva l'aria e il movimento.
E mi è andata bene.
Il mio era un tappo di plastica trasparente, almeno riuscivo a vedere e a farmi un'idea di quella che poteva essere la vita. Le mie povere amiche dello scaffale di sopra invece avevano dei tappi neri, stavano al buio, non le si sentiva che lamentare. Quelle accanto a loro ce li avevano rossi, lunghissimi e strettissimi. Beh, non c'è che dire, le faceva sembrare molto più longilinee e sinuose, così capitava spesso che qualcuno se ne innamorasse e le portasse via con sé. E lo stesso succedeva per quelle con i tappi colorati, loro sì che catturavano gli sguardi di mille e più dita che correvano come pazze tra di loro, le toccavano, le afferravano, strappavano loro via quegli involucri e davano loro il respiro. Io le vedevo, in quel momento le mie amiche acquistavano una forza speciale e poi andavano a toccare qualcosa di bianco.. e lì non capivo, lasciavano dietro di sé una scia dello stesso colore del loro tappo, ma non riuscivo a percepire se provavano gioia o dolore. Ho fatto migliaia di incubi e sogni prima di sperimentarlo in prima persona. Sognavo che quella scia fosse il velo del vestito per il matrimonio tra di loro e la mano che se ne era innamorata, oppure che, al contrario, fosse la loro morte, che piano piano scomparissero.
Un giorno in cartolibreria entrò una ragazza con uno zaino sulle spalle. Si mise a guardare il reparto dei quaderni, si concentrava soltanto su quelli che avevano copertine di cartoncino e che non erano troppo spessi. Li apriva e ne accarezzava le pagine; le teneva tra il pollice e l'indice della mano destra e le massaggiava con movimenti circolari per testarne la consistenza. Scelse un quaderno dalla copertina rosso scuro, le pagine color ocra sottilissime e dai bordi arrotondati, poi con un grande sorriso si diresse verso di noi, sentivo che mi avrebbe presa con sé. Decisa, mi estrasse dalla gabbia metallica che mi teneva prigioniera e mi unì al mio, al suo quaderno.
Era inverno e lei ci proteggeva dal vento freddo abbracciandoci forte e comprimendoci al petto. Sentivo il suo respiro caldo e le sue mani fredde. Il mio viaggio cominciò quella stessa sera, lei mi dette la vita facendomi toccare la punta della mia testa sul primo di quella impalcatura di fogli e dandomi una spinta con un movimento della mano. Le sue dita si incastravano perfettamente con la linea del mio corpo e io la seguivo come ci aveva seguito il vento, come pattinando dolcemente su una pista di ghiaccio, facevo piroette, piccoli salti, tornavo sulle righe del foglio e poi venivo sospesa in aria, vicino alla sua guancia e appoggiava la sua testa su di me. Da lassù vidi che anche io avevo lasciato una scia, mi sentivo accaldata, un po' stanca, ma bene. Mi resi conto che la mia anima era quell'inchiostro e ne avevo lasciata una parte lì, su quella pagina, la avevo fatta assorbire dalle fibre del foglio. Quel quaderno stava contenendo me. Non potevo non amarlo. Non potevo non desiderare che continuamente la mano di lei mi facesse tornare lì ad amare, a rilasciare la sostanza della mia vita. Quando lei pensava e mi teneva sulla sua guancia, pregavo di poter arrivarle all'orecchio, parlarle e supplicarla di farmi vivere ancora, di farmi viaggiare ancora, di farmi tornare da quel quaderno, dal mio amante. Quella sera non ci riuscii. Lo chiuse. Poi chiuse me, infilandomi di nuovo quel tappo che mai ho odiato tanto quanto quella sera. Credo di aver odiato anche lei, la sua mano. Ciò che mi ha dato la vita e in un momento me la ha negata. Che notte orribile. Mi riprese in mano il giorno seguente. Le sue dita erano caldissime, avevano tenuto stretta una tazza grande e coloratissima con dentro una bevanda scura che odorava di amaro, di buono; quello stesso odore che avrei risentito più volte su quelle dita e che mi avrebbe riscaldato e che mi avrebbe circondato sempre, ogni mattina. Prima aprì il quaderno, poi me. Stavo per toccare non una pagina bianca, ma la stessa della sera precedente. Eppure non mi appoggiò, non ne toccai subito la superficie, gli stavo appena sopra. Questa fu la prima delle volte che ripetendosi fecero un'abitudine mattutina; prima che continuassimo a scrivere, io e la mano ripercorremmo insieme la mia scia, facendoci una passeggiata tra le linee e le curve che ho scoperto che si chiamano lettere, che poi, io e lei, se non le staccavamo, adesso so che diventano parole. Così ripartii per il mio viaggio dopo il saltello che faceva un punto. Seguivo la traiettoria che mi davano le linee dritte ed infinite che avevo davanti e in base all' energia della spinta che mi dava la mano i miei movimenti potevano farsi dolci o violenti, a volte erano difficoltosi, altre agili e spigliati. Capii che tutto dipendeva da lei, la ragazza, non più dalla sua mano, ma dalla sua testa, dal suo cuore. Le parole che scriveva avevano, congiungendosi, un significato. Erano l'espressione di ciò che provava, delle sue debolezze, delle sue passioni. Imparai a percepire come mi avrebbe diretto la sua mano già da come mi afferrava. Dai polpastrelli sentivo il suo battito, quando più lento, quando più affannato. E quanto più calmo, quanto le parole erano lievi, quanto più veloce, quanto le parole erano dure e aspre. Anche il suo respiro cambiava, a volte esso stesso sembrava spingermi tra le linee; certe mattine l'odore del caffé era soffocante e i miei movimenti erano rapidissimi, convulsi, e alla sera ero esausta, quasi non vedevo l'ora di riparami nel mio tappo. Però mi resi conto che mi necessitava, che nonostante fossi un semplice oggetto quello che facevo per lei era importante. Una volta tornò nella sua stanza tardi durante la notte. Io e il quaderno eravamo già stati riposti da tempo sotto l'argentea lampada da tavolo sulla scrivania. Quando entrò, gettò caoticamente gli oggetti della sua borsetta sopra il tavolo, mi perse tra di loro e disperatamente le sue braccia cominciarono a dimenarsi per cercarmi. Nemmeno si sedette. Quando mi trovò mi afferrò di scatto, ansiosa di aprirmi, fece cadere a terra il tappo. Mi scuoteva, le sue mani tremavano. Trascinò con la pesantezza di un braccio che rilascia le ultime forze il quaderno vicino a sé, lo teneva aperto appoggiandoci la testa, di lato, tanto che il rossetto andava a sporcare le pagine. Scrivevo vicino al suo viso, con difficoltà, le pagine si facevano via via più umide, non riuscivo a controllare l'inchiostro che si perdeva tra il foglio e le lacrime. Si addormentò su di noi, con noi che ci prendevamo cura di lei. Le pagine avevano avvolto il suo viso in un candido abbraccio e avevano trattenuto la rabbia che in quel momento era riuscita a concretizzare grazie a me, alla mia linfa di vita. Si dimenticò di rimettermi il tappo e così quella sera riuscii a vedere quello che aveva scritto. Parlava di un viaggio. Voleva andarsene, lasciare una città, credo che fosse la città dove ci trovavamo, diceva che non stava vivendo la vita che sognava, che si sarebbe solo accontentata nel rimanere lì, invece lei voleva essere felice "davvero". Ha scritto la parola "rischio", ha scritto che cercare di realizzare un sogno è un "rischio". Io non so che cosa vuol dire, ma quando ha scritto questa parola l'ha fatto velocemente, ha messo un punto e si è fermata anche lei un momento, poi è caduta una goccia umida dall'alto, sul foglio. Credo che la spiegazione sia venuta qualche riga più avanti, quando ha detto che quel rischio era lo scalino per la sua libertà. Ha detto "prova", lo ha detto a sé stessa, o forse glielo ho detto io. Aveva voglia di tentare e aveva un'immensa paura. Dopo questa confessione gli occhi cominciarono a chiudersi e la testa a chinarsi.
Pensai che se aveva paura era perchè voleva andare da sola, avrei voluto dirle che io c'ero, l'avrei seguita ovunque, sarei stata per sempre con lei, le sarei sempre stata utile per fare chiarezza nei suoi pensieri, per farle estirpare la rabbia che poteva avere dentro la sua testa e farla sfogare su un foglio di carta. Glielo avrei voluto dire, glielo avrei voluto fare scrivere.
La mattina seguente avevo la vista offuscata, l'inchiostro che era rimasto sulla punta si era seccato e mi impediva di respirare. Quanto avrei voluto che aprisse gli occhi e che si accorgesse di me che non desideravo altro che dirle tutte quelle cose che avevo pensato durante la notte, assicurarle il mio sostegno. Ma ero paralizzata. Non riuscivo, soffocavo. Quando si svegliò, quando mi prese tra le mani e cominciò di nuovo a farmi scrivere fu inaspettatamente tremendo. Non scorrevo più bene, ogni volta che toccavo il foglio sentivo dolore, e la sua mano mi premeva ancora più forte ed erano per me fitte al corpo lancinanti. Stavo morendo "davvero". Lei se ne rese conto prima di me. Doveva essere dispiaciuta, aveva tentato più e più volte di rianimarmi, mi dava forza facendomi fare degli scarabocchi in dei foglietti sparsi. A me girava incredibilmente la testa, riconoscevo di stare scrivendo sul quaderno ma seppure mi sforzassi era difficoltoso cogliere ciò che scriveva. Chissà come stava, chissà cosa aveva deciso, chissà dove sarebbe andata, chissà se mi avrebbe portata con sé. Lei, come me, doveva muoversi per essere felice, doveva muoversi per vivere. Ed io ero fondamentale per lei, perchè con me viaggiava lo stesso, quando le pagine del quaderno si spiegavano come ali di un gabbiano e lei danzava là sopra con me seguendo una musica che sentivamo solo noi, un ritmo che veniva dal suo cuore. Viaggiava nei suoi sogni, si spostava di città in città, alla ricerca della vita, attraverso la mia vita.
Quel giorno mi fece un regalo. Smise di scuotermi e di agitarmi su quel maledetto foglio, mi appoggiò un attimo. Prese la sua tazza e si preparò il caffé. Circondata dall'aroma e stretta nel dolce abbraccio della mano, sfogliammo tutte le pagine del nostro quaderno, ripercorremmo insieme tutte le parole, tutti i sogni, tutti i viaggi. Persa nella felicità dei ricordi, chiusi gli occhi.

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